[Guerre di Rete - newsletter] Wikileaks e il giornalismo; Facebook e le PR; patto per la cyberpace ma senza i big
Guerre di Rete - una newsletter di notizie cyber
a cura di Carola Frediani
Numero 11 - 18 novembre 2018
Di cosa di parla oggi:
- di Wikileaks e Assange
- di Facebook
- della Call for Trust di Parigi
- di cyberwarfare e guerriglia informativa tra Usa, UK e Russia
- e di altro
ASSANGE/WIKILEAKS
Rivelata “per errore” l’esistenza di una incriminazione per Assange
Esiste una incriminazione per Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, da parte degli Usa, anche se tenuta nascosta. Il sospetto e il timore dei suoi sostenitori che da tempo erano convinti che Assange fosse nel mirino dell’autorità giudiziaria statunitense sono stati infine confermati nel più inusuale dei modi. E il fatto apre ora scenari inquietanti anche per tutto il mondo dell’informazione, al di là di quello che si possa pensare di Wikileaks e soprattutto del suo carismatico ma anche controverso leader.
Seguitemi che la vicenda è intricata e bizzarra. Tutto nasce da un ricercatore della George Washington University che si occupa di terrorismo internazionale, Seamus Hughes, che stava seguendo un caso minore di terrorismo e passava al setaccio dei fascicoli giudiziari online, tra cui una vicenda oscura di reati sessuali e sicurezza nazionale in cui era implicato un uomo dell’area di Washington, Seitu Sulayman Kokayi. Per chiarire subito, la vicenda in questione non sembra avere alcuna relazione diretta con Assange. Ma nelle carte (qui online) a un certo punto, per errore, si fa riferimento proprio al capo di Wikileaks, e al fatto che sia stato incriminato in segreto. Hughes ha notato il passaggio (anzi sono almeno due i passaggi che citano Assange) e l’ha twittato. Da lì si sono scatenati i media. In particolare il Washington Post ha ricevuto conferma da ambienti giudiziari che: 1) il nome di Assange non c’entrava con quel procedimento 2) quanto rivelato (che Assange è incriminato) è vero anche se la rivelazione non era voluta. Insomma, Assange è incriminato in segreto ma il fatto è uscito per un errore madornale.
Come è stato possibile un simile pasticcio? Il procuratore del caso Kokayi è Kellen S. Dwyer, che seguirebbe anche il caso Wikileaks, secondo il WashPost. Quindi le ipotesi principali per l’errore (o presunto tale) sono due: o un copia-incolla di pezzi di documenti - laddove si riferiscono le argomentazioni per tenere segreta una incriminazione - in cui gli uffici del procuratore si sono dimenticati di cambiare i nomi. O un lapsus freudiano del procuratore.
Interessante notare che quasi nelle stesse ore il Wall Street Journal scriveva che il Dipartimento di Giustizia Usa sarebbe ottimista sul fatto di riuscire a portare Assange in tribunale. Ma per cosa? Di cosa potrebbe essere accusato Assange?
L’azione legale mossa contro il fondatore di Wikileaks resta un mistero - scrive il New York Times - anche perché incriminazioni che abbiano come perno la pubblicazione di informazioni di pubblico interesse (anche se ottenute da hacker, e sia pure hacker russi, per stare anche solo all’ultima vicenda del Russiagate) creerebbe un pericoloso precedente per la libertà di stampa. E anche per questo l’amministrazione Obama, non certo tenera con i whistleblower e i leaker, ci era andata cauta nella vicenda specifica.
Una delle ipotesi più interessanti però la fa un reporter di Gizmodo che ha seguito da vicino Anonymous, Lulzsec e l’attacco informatico alla società di intelligence Stratfor di alcuni anni fa. Il punto è questo: i diritti dei giornalisti a pubblicare documenti ottenuti anche illegalmente da qualcun altro sono stati difesi dalla Corte Suprema (anche se su temi di sicurezza nazionale potrebbero comunque godere di minori protezioni) a patto che i giornalisti non partecipino nell’azione criminosa . Dunque l’unica strada per arrivare ad Assange senza formalmente inguaiare tutti i giornalisti americani e stranieri che hanno pubblicato o scritto di tali documenti sarebbe di lasciare perdere l’Espionage Act e invece di accusarlo di aver partecipato a o coadiuvato in qualche modo un’intrusione informatica. Una situazione simile a quella per cui anni fa era stato condannato il giornalista Barrett Brown. Ora, secondo Gizmodo, l’accusa Usa avrebbe una serie di documenti e chat dei tempi di Stratfor, ottenuti anche grazie all’ex hacker divenuto informatore dell’Fbi Hector Monsegur, detto Sabu, lo stesso che fece incriminare l’hacktivista Jeremy Hammond, che mostrerebbero (si fa per dire, qui è tutto da dimostrare invece) un “aiuto” esterno di Assange all’azione di AntiSec, una campagna di hacking portata avanti da un gruppetto di hacker di Lulzsec, gruppo affine ad Anonymous. Anche il giornalista Kevin Poulsen, escludendo un attacco ad Assange attraverso l’indagine sul Russiagate condotta dal procuratore speciale Mueller, sottolinea come Kellen Dwyer sia esperta di casi di hacking...
Ad ogni modo per ora le reazioni sulla vicenda, in attesa che si capisca meglio, sono molto preoccupate. Un’accusa per aver ricevuto e pubblicato documenti riservati sarebbe problematica, dato che è quello che fanno i giornalisti, twitta il direttore di Human Rights Watch. La stessa cosa la pensavano e dicevano mesi fa gli avvocati del Times. Compatti nel difendere Assange, anche le associazioni Freedom of the Press e ACLU, oltre a Edward Snowden.
Le FAQ sulla vicenda di Assange su Repubblica.
FACEBOOK
Facebook e l’agenzia di PR che ha scatenato una crisi di PR
Questa è stata la storia bomba della settimana. Tutto nasce da una inchiestona del New York Times che racconta delle tattiche usate da Facebook per deviare l’attenzione dalle critiche verso la propria piattaforma e dalla sua incapacità a frenare influenze straniere, tattiche che includerebbero anche i servigi di una spregiudicata società di PR di area conservatrice, Definers Public Affairs, che tra le altre cose avrebbe spinto la narrativa secondo cui i critici di Facebook sarebbero pagati dal finanziere di origini ebraiche George Soros - che già nella scorsa newsletter avevo definito il babau della internazionale destrorsa complottista e antisemita, o insomma qualcosa del genere... Tutto ciò mentre la dirigenza Facebook accusava di antisemitismo i suoi critici. Il social ha respinto con forza il quadro poco lusinghiero tratteggiato dal Times, e il board ha difeso Zuckerberg e Sandberg (che ha scritto pure un post). Ma il punto è che la dirigenza Facebook sembra essere allo sbando, anche nella strategia su come reagire alle critiche.
Definers sarebbe anche accusata di aver cercato di diffondere storie sui media per screditare Apple, e far dire che aveva pregiudizi “liberal” - anche se a pagarla sarebbe stata un’altra azienda tecnologica (chi era?? si chiede giustamente Wired) e non Facebook (CNN). Sempre Definers avrebbe cercato di far attecchire sui media delle storie contro Google e Bird, la società di monopattini elettrici, anche in tal caso non si capisce pagata da chi (The Verge), e avrebbe attaccato ambientalisti (sostiene The Daily Beast). Insomma, la storia di Facebook si porta dietro altre domande e possibili storie (una è la seguente: per ogni giornalista americano ci sono 6 persone che lavorano nelle PR e alcune di queste usano tattiche a dir poco dubbie).
CALL FOR TRUST DI PARIGI
Il presidente francese Macron ha battezzato un accordo internazionale su alcuni principi di cybersicurezza nell’ambito del forum della Pace di Parigi e dell’Internet Governance Forum.
Si chiama Paris Call for Trust and Security in Cyberspace.
L’accordo delinea solo alcuni principi tra cui: la promozione dei diritti umani in Rete; il contrasto all’hacking di sistemi elettorali e al furto di proprietà intellettuale; la cessazione di “attività cyber malevole in tempo di pace”, soprattutto di quelle che possono essere una minaccia per individui.
Hanno firmato 50 Stati, 130 aziende, 90 ong e università.
Indovinate chi non ha firmato? I principali attori della cyberwarfare oggi. I loro nomi nella prossima newsletter.
(No scherzo, eccoli: Russia, Cina, Corea del Nord, Iran, Israele e Stati Uniti (anche Australia e Arabia Saudita, anche se non li metterei nell’Ivy League)
L’obiettivo principale - commenta una delle ong firmatarie, Access Now - è la “riaffermazione della applicabilità del diritto internazionale e umanitario, e dei diritti umani nel cyberspazio”. Access Now chiede però delle aggiunte, spiegando ad esempio come l’accordo non affronti i rischi dell’hacking di governo, che costituirebbe “una minaccia per la sicurezza dei giornalisti. Jamal Khashoggi potrebbe essere stato spiato attraverso un malware invasivo prima della sua uccisione”, scrive. Pochi in generale i riferimenti alla sorveglianza statale delle comunicazioni, continua Access Now. Del resto su questo terreno, del controllo delle comunicazioni, la Francia negli ultimi anni si è data sempre più poteri (vedere questa vecchia analisi di Electrospace).
IL PALANTIR E' OFFUSCATO
Palantir sarà pure il gigante del data mining e profiling valutata 20 miliardi di dollari, ma perde soldi. Impietoso ritratto di un’azienda controversa (WSJ)
HACKING TEAM
Motherboard Usa (qui anche versione italiana) torna sulla vicenda dell’attacco informatico ad Hacking Team, e sulla chiusura definitiva delle indagini avvenuta lo scorso luglio. Racconta insomma cosa è stato chiarito (gli ex dipendenti scagionati) e cosa non è stato chiarito (chi era l’hacker che violò l’azienda di spyware nel 2015), aggiungendo alcuni dettagli.
Sulla ricostruzione dell’indagine e della caccia degli inquirenti all’autore dell’hack c’era anche La Stampa (da archivio, dicembre 2017)
CYBERWARFARE
Il ritorno di APT29
Durante le ultime elezioni di medio termine americane gli hacker e i troll russi che avevano agito nel 2016 sarebbero stati molto più quieti del previsto, riferisce il WSJ. E tuttavia, secondo due società di cybersicurezza, si starebbero rifacendo vivi degli altri hacker sponsorizzati da Mosca, il gruppo APT29, tradizionalmente più dedito allo spionaggio che alle operazioni di influenza. In particolare è stata segnalata una campagna in cui verrebbero impersonati dipendenti del Dipartimento di Stato per infettare agenzie governative ma anche aziende (Reuters).
OPERATION INFEKTION
Il tema dell’information warfare resta però al centro del dibattito politico e dell’interesse dei media. Come dimostra questo viaggio nell’unità militare britannica dedita alla guerra informativa (Wired UK). E questo speciale del Times sulla active measures, le misure attive, cioè la guerriglia politica e informativa condotta dai russi nella storia, dalla bufala dell’Aids creato apposta dagli americani ai troll su Facebook. Giornalisticamente il formato adottato è degno di nota, con la storia frammentata in video dallo stile molto vario, ritmi rapidi, infografiche, interviste, esecuzione perfetta. (D’altro canto, il format sembra stare a metà tra l’approfondimento e il genere didascalico, rischiando di lasciare insoddisfatti gli spettatori più informati e un po’ spaesati quelli che non hanno tutti i riferimenti). Da vedere comunque. Operation Infektion - New York Times
LETTURE
Come i podcast sono diventati un tipo di storytellig tanto seducente quanto scivoloso, ambiguo (New Yorker)
Preserving truth: How to confront and correct fake news (Craig Newmark - Big Think)